Theo Gallino è un artista contemporaneo caratterizzato da un approccio tanto eclettico quanto poetico che spazia dalla pittura alla scultura, con un forte focus sulla grafica. Dopo aver completato gli studi in grafica pubblicitaria, Gallino ha deciso di dedicarsi completamente all’arte.
Le sue opere si distinguono per l’uso di tecniche miste e collage, spesso caratterizzate da un intenso impatto visivo. La sua arte è un riflesso della sua personalità e della sua visione del mondo. Combina infatti elementi di modernità e tradizione, utilizzando diversi media e oggetti: carta, resina, ceramica, metallo, mattone, pietra combinati con preservativi, provette, pluriball e burnìe (vasi di vetro).
Il pluriball, quel materiale onnipresente e apparentemente banale, nasconde un significato profondo: la protezione. Protegge, avvolge, ammortizza. Ma cosa accade quando il pluriball incontra le burnìe, quei contenitori che custodiscono elementi e tracce del nostro cammino?
Le burnìe, come contenitori di un viaggio, racchiudono frammenti di natura e chimica. Ogni elemento, ogni traccia, racconta una storia, un percorso che si snoda tra la materia e la sua trasformazione. Attraverso l’analisi delle burnìe, possiamo svelare la verità nascosta. La chimica ci svela la composizione degli elementi, la natura ci racconta la loro origine.
A fine 2024, Theo Gallino ha concesso a BIANCOSCURO un’intervista e ha aperto le porte del suo studio ai nostri lettori, offrendo uno sguardo privilegiato sul suo processo creativo.
Durante l’intervista che potrete leggere più avanti, Gallino ha discusso delle sue influenze artistiche e del suo approccio alla creazione. Ha sottolineato l’importanza di esprimere emozioni attraverso l’arte, affermando che ogni opera è un riflesso della sua esperienza personale. Ha anche parlato delle sfide che affronta nel mantenere la sua visione artistica in un mondo in continua evoluzione. La visita allo studio di Gallino ha rivelato un ambiente carico di creatività e ricco di ispirazione. Le pareti ospitano pollini e soffioni. Gallino ha mostrato anche alcune sue opere inedite come “Tra le nuvole”, un incanto di opera dalla delicatezza indescrivibile.
L’intervista e la visita allo studio di Theo Gallino offrono ai lettori un’interessante panoramica sulla vita e il lavoro di un vero artista contemporaneo. La sua dedizione all’arte e la sua capacità di comunicare attraverso i colori e le forme continuano a ispirare molti.
Vincenzo Chetta: Buongiorno Theo, prima di tutto ti voglio ringraziare per il tempo che potrai dedicarci, è un vero piacere portare la tua arte sulle pagine di BIANCOSCURO!
Theo Gallino: Buongiorno Vincenzo, grazie a te, sono qua a disposizione, dimmi tutto.
V.C.: Oggi sei un artista affermato nel panorama contemporaneo, ma quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo dell’arte?
T.G.: Il mio mondo dell’arte comincia dalla seconda media, quando un’insegnante, vedendo in me inclinazioni particolari, mi introduce alla pittura. Dobbiamo pensare che non ero un alunno particolarmente ligio e disciplinato, mio padre lavorava nello stesso istituto, perciò ero costantemente sotto controllo, ma nonostante questo non brillavo. L’incontro con questa persona mi aprì ad un mondo nuovo, infatti ho poi frequentato il Grafico-Pubblicitario distinguendomi e stupendo mio padre con dei 9 in pagella: era chiaro che avevo trovato la mia strada, che potendomi esprimere avevo poi la serenità necessaria per riuscire bene anche nelle materie più “noiose”. Il mondo del lavoro mi ha accolto immediatamente, ho subito iniziato come grafico e a lavorare con le diverse tecniche di stampa, ma allo stesso tempo ho continuato a coltivare quella passione per l’arte scoperta da quell’insegnante alle scuole medie e cresciuta successivamente anche grazie alle visite ai musei, dalla GAM di Torino alle piccole gallerie di allora che presentavano il grande surrealismo dell’area piemontese. Mi avvicino dunque a questa pittura, la indago, ma il mio lavoro è in realtà partito quando sono completamente uscito dal seminato, quando ha smesso di essere “pittura” ed è diventato “opera in sè”, quando è diventato dunque tridimensionale con l’avvicinamento al mondo dell’anticoncezionale.
V.C.: Dal preservativo al pluriball, dalla carta a mano ai vasi in vetro, dalle provette al corten, senza dimenticare l’astrazione del mimetismo. La tua espressione utilizza tanti media diversi rimanendo sempre estremamente riconoscibile: qual è il tuo segreto?
T.G.: Faccio quello che dovrebbero fare tutti gli artisti, mi interrogo, inizio a raccontare il mio mondo per narrare cosa succede. Non dico che “l’arte salverà il mondo”, però almeno possiamo narrare portando messaggi sani, nel periodo in cui viviamo. L’avvicinamento al mondo dell’anticoncezionale era una narrazione per far entrare l’oggetto (allora un grande tabù) nel quotidiano e da lì trasformarlo in arte, in pittura, in semiografia, fino a raggiungere un punto diverso. Ormai ero chiamato “quello dei preservativi”. Faccio questa mostra importante con il “Grande Preservativo”, un’opera alta più di 2 metri, che simboleggia appunto l’anticoncezionale, protetto a sua volta dal pluriball: la protezione totale dell’uomo. Da quel momento ho lavorato il pluriball con varie tecniche, dall’incisione al rayogramma, una tecnica fotografica ottenuta per semplice interposizione dell’oggetto fra la carta sensibile e la fonte luminosa, tecnica creata da Man Ray che aveva però il limite del supporto. Io ho avuto la fortuna di lavorare in camera oscura da giovane, compro questa carta fotografica da 1 metro e mezzo lunga 60 metri e, facendo muovere le persone come una scenografia, ottengo i segni dei loro corpi che fanno sì che la trasparenza venga impressionata come un pluriball sulla carta fotografica. Questi lavori sono montati su grandi dimensioni, sono opere che raggiungono anche i 3 metri, cosa che Man Ray non ha potuto fare perché la fotografia in quel periodo limitava al 30×40 cm. Sono consapevole di non aver “scoperto l’acqua calda”, ma so di aver portato avanti un discorso suo in modo più sviluppato. Le grosse opportunità che poteva dare non era più solo il segno sulla carta fotografica delle forbici, del lentino, del frammento di carta… No, ma bensì proprio il mio “vestire”, il mio pluriball, che segna la superficie in mezzo a tutte queste trasparenze, figure umane o oggetti di quel periodo, come i primi computer. Andando avanti in questa ricerca, ho iniziato ad usare anche in camera oscura degli elementi naturali (pollini, fiori). Già in quel periodo, perciò alla fine degli anni ‘90, sulle mie carte fotografiche compaiono già in rayogramma i segni naturali: i classici soffioni. Da lì in poi inizia il mio lavoro proprio con il segno della natura.
V.C.: Possiamo ricondurre molto del tuo lavoro al pensiero ecologico, al riuso, alla natura e alle sue trasformazioni. Forse proprio ad una ricerca (ed un utilizzo) della “verità” attraverso le trasformazioni della materia?
T.G.: Scopro questi grossi soffioni, con un diametro anche di venti centimetri, che si differenziano dal classico tarassaco. Sarà poi interessante come la gente si stupisca che siano vere infiorescenze, mi chiedono sempre come riesco a costruirli, ma sono nati così senza il mio aiuto. Qui parte la missione di portare avanti il pensiero ecologico, inizio ad avere veramente tante persone che, cercandolo in giro per il mondo, mi mandano l’immagine fotografica. Questa è un po’ la mia mission: far scoprire in natura questi elementi, portare l’arte alla lettura completamente naturale, e a far ragionare l’uomo sull’ecologia.
V.C.: Proprio con i soffioni scopriamo queste opere nei più tradizionali vasi di vetro…
T.G.: Il soffione lo uso in vari modi, anche come “archivio della nonna” nelle burnìe, il barattolo in vetro che veniva riempito di frutta e verdura per la conservazione. Racconto questo perché è anche importante la narrazione dell’oggetto in questo momento. Io la classica burnìa la rendo alchemica con la cera a fusione che mi fa da lente e fa sì che in questi vasi antichi (realmente antichi, anche soffiati a bocca) la natura sia in archivio, ma in archivio naturale nel senso che lo uso in maniera naturale. Uso il fiore, questa simbologia classica, e arriviamo alle tele, alle tavole montate con i soffioni come segno ritmico della natura. Li ho usati anche in calcografia, sulle terrecotte, e da lì in poi si sono susseguite tante tecniche.
V.C.: Abbiamo visto delle novità all’interno delle burnìe, vuoi anticiparci qualcosa?
T.G.: L’ultima mia alchimia è l’uso del residuo dei telai. Ancora una volta porto il ricordo all’antico. La lanugine soffiata diventa una nuvola, che utilizzo nel mio ultimo lavoro. “Con la cera siamo nel mare, con le nuvole siamo nel cielo”, segno di quanto sia globale il lavoro incentrato sulle burnìe. Proprio in questi giorni poi, ho trovato un nuovo supporto. Si tratta di scodelle di legno scavate con punte di vetro da una tribù che creano una magia particolare con le mie nuvole. Continuo sempre a lavorare sulle semiografie del tempo: possiamo fare un vaso in vetro, legno, ferro, terracotta, però, se torni indietro nel tempo e vedi questi oggetti come sono stati fatti, se leggi fra le righe, ti rendi conto che sono già sculture. I “Contenitori di pollini” parlano già da soli, sono dei veri “segni del tempo”, questa scritta che io uso da una vita insieme a “voglio vivere per…” .
V.C.: I nostri lettori, assidui frequentatori di fiere d’arte, conoscono sicuramente il tuo lavoro presentato nei maggiori eventi italiani dalla Galleria Lara, Alberto e Rino Costa di Valenza. La vostra è una collaborazione di lunga data…
T.G.: Frequento le Fiere d’arte da più di 40 anni e conosco Rino Costa da quando ha aperto la Galleria, da una vita. Abbiamo sempre mostrato un rispetto reciproco, ma non avevamo mai davvero collaborato insieme. Ci incontriamo un giorno in fiera e mi chiede a cosa stessi lavorando, è venuto naturale invitarlo in studio. Quel giorno è scoccata una scintilla, un sodalizio nel lavoro e nella vita, una fiducia che ci permette di lavorare bene insieme.
V.C.: È sempre emozionante vedere le tue opere dal vivo, noi abbiamo avuto la fortuna anche di visitare il tuo spazio. Quali saranno i prossimi appuntamenti per vedere le tue opere pubblicamente?
T.G.: Indubbiamente proseguirà la collaborazione con Rino Costa e sarò presente in tutte le Fiere d’Arte con la sua Galleria. Ci sarà poi un’occasione particolare, una mostra con catalogo che dovrebbe svilupparsi in giugno con la Galleria Mancaspazio a Nuoro, occasione nata da un incontro avvenuto durante Flashback a Torino con Chiara Manca. Questo fa capire quanto essere presenti nelle Fiere d’arte non sia scontato, può portare nuove connessioni fortunate ed è sempre molto importante avere la giusta presentazione.
V.C.: Ora è il momento della domanda più introspettiva: il giovane Theo ha capito fin da subito che ricerca ed espressione artistica potevano diventare una carriera solida? L’ambiente intorno a te agevolava questa tua passione?
T.G.: L’artista riceve una chiamata come chi decide di fare il prete. Io mi sono sentito artista da subito, e anche oggi da quando vado a dormire a quando mi sveglio il mio pensiero è rivolto al respiro dell’arte. Forse tutto ciò è racchiuso in una battuta di mia madre che più volte ripeteva: “Ho fatto tre figli, ma lui è venuto diverso!”. La fortuna di avere persone intorno a me che riescono a scambiare idee e a mettere in discussione il mio lavoro aiuta tantissimo, e a loro ripeto quotidianamente: “Siete contenti di avermi conosciuto”.
V.C.: Senza inutili eccessi, ti sei fatto strada nel mondo della grafica e dell’arte. Quali consigli daresti ad un giovane artista che si affaccia oggi (momento storico fatto di sola apparenza e ostentazione) in questo mondo?
T.G.: Io seguo tutti i giovani, cerco sempre di capirli, questo non solo ora che ho anni di esperienza, ma anche nei miei inizi, io ho sempre voluto vedere cosa un collega andava a scoprire. E ancora oggi mi piace andare in fiera o in studi e scoprire artisti giovanissimi con un pensiero fluido. A volte questo scambio reciproco di rispetto aiuta il mio lavoro. Un giovane vuol capire come viene fatta una carta, un’incisione, una calcografia, io col cuore parlo di queste cose. Naturalmente però voglio anche capire come nascono energie diverse, dal computer dal cellulare, che se usati in modo intelligente e sano possono scaturire un video o una musica particolare, un richiamo per la contemporaneità rileggendo il passato. Perciò capire cosa un giovane tira fuori è sempre molto importante.
Il consiglio che darei ad un giovane è di fare massima esperienza di cosa succede nell’arte. A volte parlo con dei giovani che non sanno cos’è un acquerello fatto in un certo modo, o non conoscono l’uso delle cere o delle fusioni. Io, nonostante l’età, sono ancora molto curioso, perciò ad un giovane direi di avere la massima curiosità, di capire cosa è successo e cosa succede, di leggere molto bene fra le righe e cercare di esprimersi al meglio con naturalezza, senza pensare di essere “arrivato”. Ci sono giovani davvero molto bravi, loro sono quelli che dovranno dare “qualcosa in più”.
V.C.: Con questo pensiero rivolto al futuro concludiamo l’intervista. Theo ancora grazie per averci accolto e per questa chiacchierata, è stato un vero piacere.
T.G.: Chiudo con un interrogativo: “Siete contenti di avermi conosciuto?”.
Theo Gallino rappresenta una figura significativa nel panorama artistico contemporaneo italiano. La sua capacità di innovare e sperimentare lo rende un artista da seguire con attenzione. Con un percorso che continua a evolversi, Gallino è destinato a lasciare un’impronta duratura nel mondo dell’arte.