Agostino Bonalumi, artista italiano noto per le sue “estroflessioni” particolarmente innovative, è nato il 10 luglio 1935 a Vimercate, in provincia di Monza. Bonalumi ha sperimentato forme e materiali innovativi per creare opere tridimensionali che giocano con la luce e lo spazio, cercando di esplorare le possibilità espressive e sensoriali che questi media potevano offrire.
I suoi lavori sono conosciuti, voluti ed esposti in tutto il mondo. Nella sua lunga carriera ha partecipato anche a importanti eventi artistici come la Biennale di Venezia. Scomparso il 18 settembre 2013, il suo lavoro continua ad essere apprezzato e studiato da critici d’arte e collezionisti.
In occasione delle mostre che celebrano il Maestro a dieci anni dalla sua perdita, “The Paradox of Proximity: Agostino Bonalumi and Lee Seung Jio” e “Agostino Bonalumi. Il Teatro delle Forze”, abbiamo avuto la possibilità di intervistare Davide Mazzoleni, scopriamo cosa è emerso…
Vincenzo Chetta: Buongiorno Davide, la ringrazio per il tempo che potrà dedicarci. L’occasione è quella della celebrazione di Agostino Bonalumi nell’anno del 10° anniversario dalla scomparsa. La vostra Galleria nasce nel 1986 da una collezione privata iniziata negli anni ‘50, ormai stabilmente una delle principali gallerie italiane d’Arte Moderna e Contemporanea. Un solido rapporto quello tra Mazzoleni e Bonalumi, cresciuto nel tempo, vi legava una forte collaborazione…
Davide Mazzoleni:Buongiorno, ringrazio vivamente per questa intervista. Questa mostra segna una tappa importante all’interno di questo percorso iniziato oltre trent’anni fa. Bonalumi è un artista particolarmente rappresentativo per la storia della nostra galleria. Si tratta di un rapporto che si è consolidato nel tempo nato da una lunga amicizia. Mio padre ha sempre stimato Bonalumi, un artista che, pur facendo un lavoro molto rigoroso, sperimentava sempre; materiali e forme diverse. Ricordiamo le due bellissime mostre sulle sculture del maestro lombardo realizzate nel 2014 dalla galleria, sia a Londra sia a Torino, dopo la scomparsa del Maestro. Un omaggio importante e significativo rafforzato negli anni anche grazie al lavoro in stretta e costante collaborazione con l’Archivio Bonalumi.
V.C.: Mazzoleni e Kukje Gallery hanno esplorato le connessioni fra Bonalumi e Seung Jio nella sede di Londra, così come anche al Frieze Masters di ottobre. Come è nata questa eccezionale collaborazione?
D.M.: Da inizio ottobre la galleria di Londra ospita presso la sua sede la mostra “Il Paradosso della Prossimità. Agostino Bonalumi e Lee Seung Jio” (The Paradox of Proximity: Agostino Bonalumi and Lee Seung Jio). La mostra, a cura di Marco Scotini, è stata organizzata in collaborazione con Kukje gallery, con la quale abbiamo anche condiviso il nostro stand a Frieze Masters London, presentando uno splendido progetto. I rapporti con Kukje gallery sono nati alcuni anni fa e si sono consolidati nel 2021 con il primo stand condiviso e, con l’apertura a mercati orientali siamo stati particolarmente felici di iniziare questa proficua collaborazione, significativa per entrambe le gallerie, sia come scoperta dei propri artisti rappresentati sia come nuovo approccio culturale e di mercato.
V.C.: Da una parte una mostra intima con i monocromi in dialogo con le opere di Lee Seung, dall’altra un’importante retrospettiva legata anche all’ambito teatrale, indagato da Bonalumi negli anni ‘70. L’una non esclude l’altra, c’è una forte correlazione fra teatro e opere plastiche…
D.M.: Assolutamente sì, entrambe le mostre si focalizzano durante periodi cruciali per la ricerca dell’artista, tra gli anni sessanta e settanta. La prima mostra presentata presso la galleria di Londra demarca un orizzonte di due artisti così lontani nel loro contesto geopolitico e culturale, ma al contempo ritenuti pionieri nel superamento dell’arte informale, il titolo della mostra allude proprio a questa distanza spaziale e temporale tra di loro sottolineando l’intrigante affinità della loro ricerca creando questo paradosso. La mostra “Agostino Bonalumi. Il Teatro delle Forze”, grazie alla preziosa curatela di Marco Scotini, evidenzia, nella sede di Torino, il ruolo della macchina teatrale e come questa allude alle forze plastiche che ogni lavoro di Bonalumi esibisce e formalizza. Come evidenzia il curatore stesso: “Un vero e proprio teatro di forze è all’opera nei monocromi plastici di Bonalumi. Per questo, all’inizio degli anni settanta, gli spazi scenici delle due azioni coreografiche (“Partita” e “Rot”), al centro della mostra, diventano i luoghi per eccellenza della ricerca plastico-dinamica di Bonalumi. Proprio perché vi incontriamo anche forze acustiche, forze coreografiche, luministiche che entrano in un rapporto di mutua dipendenza e simultaneità con quelle plastiche e cromatiche delle sculture dell’artista.”
V.C.: Queste due rassegne vedono la cura di Marco Scotini e la collaborazione dell’Archivio Bonalumi, che con voi hanno creato due rassegne originali e molto interessanti, una sinergia di sicuro successo, complimenti e grazie per aver reso omaggio al Maestro Bonalumi con “The Paradox of Proximity: Agostino Bonalumi and Lee Seung Jio” e “Agostino Bonalumi. Il Teatro delle Forze”.
D.M.: Oggi come doveroso tributo e come galleria di rappresentanza dell’Estate di Agostino Bonalumi, la doppia mostra si presenta come una retrospettiva articolata che permette di riscoprire ulteriormente l’artista sotto una veste meno conosciuta attraverso una selezione di opere appartenenti a una delle stagioni più felici della sua attività creativa. Grazie alla curatela di Marco Scotini entrambe le mostre presentano aspetti inediti e approfondimenti sull’opera del grande maestro lombardo. Entrambe sono accompagnate da ricche pubblicazioni con relativi testi critici. Grazie ancora.
Abbiamo parlato di Agostino Bonalumi e delle due mostre celebrative anche con Marco Scotini, curatore, scrittore e critico d’arte al quale sono state affidate le due mostre di Londra e Torino.
Vincenzo Chetta: Buongiorno Marco, è un piacere poter chiacchierare con lei di arte, ed in particolare di un Maestro come Agostino Bonalumi e di realtà come la Mazzoleni…
Marco Scotini: Buongiorno Vincenzo, è la prima volta che mi occupo, da curatore, di un artista così “established” (fino al punto di rimanerne bloccato o cristallizzato al suo interno) come Bonalumi. Ma questa è anche la mia prima collaborazione con la galleria Mazzoleni nelle sue due sedi di Londra e Torino: i felici risultati sono sotto gli occhi di tutti, credo, senza dover aggiungere altro.
V.C.: Negli spazi di Mazzoleni London è in corso, fino al 19 dicembre, “The Paradox of Proximity: Agostino Bonalumi and Lee Seung Jio” , una mostra che vi ha visto in collaborazione con la Kukje Gallery oltre che con l’Archivio Agostino Bonalumi e l’Estate of Lee Seung Jio di Seoul. Come è nata l’idea di un progetto che mostrasse le connessioni fra questi due grandi artisti?
M.S.:In rapporto alle differenze di scala dei due spazi espositivi di Mazzoleni, ho pensato che la mostra di Londra dovesse apparire come un dialogo intimo o domestico mentre quella di Torino come un ‘discorso in pubblico’ e dunque plurale, trasversale, multiplanare: ecco allora il linguaggio della musica, dell’arte, della danza, del teatro fusi assieme. Dal punto di vista del contenuto si è trattato quindi di mettere in scena nello spazio di Old Bond Street un dialogo – peraltro mai avvenuto – tra Bonalumi e Lee Seung Jio (che è uno dei pionieri dell’astrattismo coreano) in un arco di tempo cruciale come il passaggio tra gli anni sessanta e Settanta. Per comporre questo dittico la mostra si è avvalsa della collaborazione di Mazzoleni di Londra e di Kukje Gallery di Seoul, oltre che degli archivi dei rispettivi artisti. Naturalmente all’interno della mostra si è cercato di sottolineare le analogie tra i due artisti, più o meno coetanei, e di evidenziare il loro contributo allo sviluppo del modernismo del Dopoguerra pur da polarità geopolitiche opposte. Innanzitutto, abbiamo a che fare con due personalità fortemente individuali che hanno rappresentato due stili assolutamente originali e difficilmente assimilabili ad altri e tra loro. Il fatto che uno sia stato identificato con i suoi “tubi pittorici” mentre l’altro con le sue estroflessioni dà un’idea di quanto lo stile nella modernità finisse per diventare una lingua propria che si identificava a tal punto con la personalità dell’artista da dover essere tradotta, ogni volta, in un linguaggio comune. Comunque l’approccio di Lee Seung Jio è di natura illusionistico-visiva, mentre quello di Bonalumi è tattico, fenomenologico e sensuale allo stesso tempo. In definitiva ci è piaciuto giocare con il concetto di “prossimità” e con la volontà di superamento della dicotomia tra Oriente e Occidente. La stessa comparazione tra due importanti artisti collocati tra l’Atlantico e il Pacifico cerca di rendere problematica questa distanza presupposta come insopprimibile. Così come si intende superare l’ideologia di un’egemonia culturale americana che ci è stata imposta nel tempo della Guerra Fredda in favore dell’idea di una modernità più dislocata nel tempo e nello spazio, dunque, meno monolitica. Nel contesto della globalizzazione, come è l’attuale, è necessaria una nuova ricerca tesa a individuare modernità alternative, parallele, non allineate. Come si vede anche in questa mostra, nuovi linguaggi, nuove forme di produzione artistica nascono dall’incrocio e dall’ibridazione di storie culturali diverse tra loro che, pur tendendo ad obiettivi simili, hanno presupposti discordanti, eterogenei.
V.C.: A Torino invece, è aperta fino al 3 febbraio prossimo la mostra “Agostino Bonalumi: Il Teatro delle Forze”, da cosa nasce il titolo della rassegna che celebra l’artista nel decimo anno dalla sua scomparsa?
M.S.: Il titolo della mostra torinese, da un lato fa diretto riferimento alla macchina teatrale come suo oggetto espositivo, visto che vengono esposte due opere di Bonalumi concepite per due azioni coreografiche come “Partita” del 1970 (coreografata da Susanna Egri con musica di Petrassi) e “Rot” del 1973 (con musica di Guaccero e coreografia di Amodio). Dall’altro lato, il titolo allude alle forze plastiche che ogni lavoro di Bonalumi esibisce e formalizza. Non è pur vero che fin dai suoi primi lavori è sempre presente una “forza che dall’interno dell’opera preme estroflettendo la superficie”, distribuendosi in una spinta disuguale? Non è altrettanto vero che ogni opera di Bonalumi nasce dalla dialettica tra pressioni interne di un corpo e resistenze o sollecitazioni esterne che la superficie della tela oppone a tali tensioni? Perché allora ostinarsi a rintracciare dei segni in questi lavori mentre in gioco ci sono delle forze? Non tanto delle rappresentazioni (per quanto astratte) ma delle grandezze fisiche? Un vero e proprio teatro di forze è all’opera nei monocromi plastici di Bonalumi. Teatro è solo e sempre lì dove c’è una cosa e il suo opposto, due entità (o due maschere) in conflitto. Per questo, all’inizio degli anni Settanta, i due spazi scenici di “Partita” e di “Rot” diventano i luoghi per eccellenza della ricerca plastico-dinamica di Bonalumi. Proprio perché vi incontriamo anche forze acustiche, forze coreografiche, luministiche e spaziali che entrano in un rapporto di mutua dipendenza e simultaneità con quelle plastiche e cromatiche delle sculture dell’artista. Ma questi grandi spazi scenici sono anche un osservatorio privilegiato per valutare lo spostamento di Bonalumi dalla pittura-oggetto all’ambiente plastico, così come sono stati definiti dalla letteratura critica sull’autore. In questo senso aver potuto inserire in mostra “Blu abitabile”– l’environment del 1967 concepito per l’esposizione seminale “Lo Spazio dell’Immagine” – è stato un vero privilegio. Se qualcosa manca, a parer mio, è un’opera dell’inizio degli anni Sessanta (1960-62) dal titolo “Sculture Istantanee” dalla natura effimera e fatta di fogli di carta manipolati dall’artista: si tratta di un passaggio chiave nell’opera di Bonalumi, ma su cui ancora abbiamo solo pochissime informazioni.
V.C.: Gli indizi che questa non sia una comune retrospettiva ci sono tutti. Il pubblico avrà anche la possibilità di ammirare due lavori meno indagati della sua intera produzione artistica…
M.S.: Certo, si tratta di due lavori che hanno richiesto un’analisi interdisciplinare perché sono corali, nascono all’incrocio tra corpi di danza e corpi plastici in una relazione variabile tra loro, si fondano sulla monocromia, hanno un canovaccio plastico visivo e spaziale-cromatico nonostante siano informati dalla musica. Non è mai facile cercare di ricostruire delle opere teatrali che fanno dello spazio scenico l’attivatore di presenze plastiche, scultoree. Questo fatto però offre la possibilità di fare esperienza in mostra del suono, della luce, delle scritture coreografiche, ecc.
V.C.: Molto interessante inoltre la presenza di documenti e bozzetti originali. Come sono stati scelti e quanto sono state importanti in tal senso le collaborazioni di Archivio Bonalumi di Milano e Fondazione Cini di Venezia e i prestiti dell’Archivio Storico del Teatro dell’Opera di Roma e della Fondazione Egri per la Danza di Torino?
M.S.: Abbiamo fatto, con il mio collaboratore e con l’archivio Bonalumi, una ricerca durata un po’ di mesi tra varie istituzioni che conservano questi materiali separatamente: si è trattato di riportarli assieme per questa occasione. L’obiettivo iniziale era quello di raccogliere più tracce possibili dei due spettacoli, ricercare i testimoni, fare un affondo. Unica delusione in questa ricerca è stata la scoperta che non esistevano materiali video che (per quanto brevi) documentassero gli eventi. Magari dopo questa mostra, qualcos’altro potrà uscire fuori dagli archivi…
V.C.: Quando si affronta l’arte di un artista come Bonalumi, quale dovrebbe essere il modo giusto di approcciarsi per comprendere appieno le sue intenzioni?
M.S.: Non credo ci sia una metodologia privilegiata, valida per tutti. Quello che conosco è ciò che è valido per me. È noto il mio approccio curatoriale a natura “archeologica”, per cui nelle mie mostre oltre alle opere d’arte sono sempre presenti anche i documenti, a differenza del modernismo che separava l’assolutezza dell’opera da tutto il resto. Ma questo mio metodo archeologico è indiziario, per cui si parte sempre da ciò che è meno evidente, dal particolare, da tutto quello che non è entrato a far parte della lettura egemonica sull’artista. Molti dei miei colleghi amano ripetere quello che si sa, ma questo non è il mio caso…
V.C.: Un’ultima domanda: Agostino Bonalumi è un artista “definibile” in poche parole?
M.S.: Nulla è definibile in poche parole. Ogni cosa ha una natura complessa, ibridata, dispersiva, mentre noi tendiamo sempre a misurare le cose attraverso un metro sintetico, definitivo. Se c’è un aspetto di Bonalumi che vorrei sottolineare e rivendicare è quello di una scultura performativa, evenemenziale che è sempre la stessa e ogni volta diversa. Come Spinoza si domandava “cosa può un corpo”, Bonalumi si chiede “cosa può una tela”. Per questo in mostra ho voluto associare danzatori e tele. L’astrazione, come tale, non mi interessa.
V.C.: Grazie per la sua disponibilità, è stato un vero piacere.
M.S.: Spero vi siano piaciute entrambe le mostre, grazie a voi.
Due mostre da non perdere, dove emerge la visione artistica del Maestro Agostino Bonalumi, basata sull’idea che la bellezza debba essere vissuta e non descritta. Attraverso i suoi lavori unici, Bonalumi ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo dell’arte italiana.