Ambizioso! L’aggettivo che meglio descrive Marco Veronese è proprio questo, la sua ricerca non è quella classica, della nuova forma o della nuova materia, il suo obiettivo è “ridare forma” a ciò che ormai è stato reso irriconoscibile: “l’uomo”.
Lo possiamo definire “artista guerriero”, la sua missione è quella di risvegliare le coscienze dormienti e ridare, attraverso un’estetica poetica e riconoscibile, un nuovo valore alla parola spiritualitá. Per lui essere Artista è essere il “tecnico luci”, essere l’uomo che accende la lampada puntandola sulla consapevolezza. Altre due parole che lo definiscono bene sono eclettico e determinato. Marco Veronese, nato a Biella nel 1962 è infatti artista digitale, fotografo, scultore, performer e scrittore, innamorato dell’arte dall’età di 10 anni, da quando gli regalarono il libro “Dal Rinascimento al Manierismo”.
Ha incontrato e ritratto personaggi come Freddy Mercury, Michael Jackson e Madonna. Negli anni ‘80 ha esposto le sue opere in tutto il mondo, ed è uno dei membri fondatori della “Cracking Art”.
Ha vissuto ad Istanbul per 5 anni per poi trasferirsi dal 2017 a Budapest, una città che gli ha regalato una rinascita artistica ed individuale. Gli sarebbe piaciuto continuare a lavorare a Biella, ma aveva bisogno di nuove energie ed ha voluto quindi dare alla sua vita una direzione, non necessariamente un senso: la direzione lo ha portato lontano “con la tristezza nel cuore” ,ma con la consapevolezza che solo all’estero sarebbe riuscito ad esprimersi al meglio.
Vincenzo Chetta: Buongiorno Marco è un enorme piacere fare la tua conoscenza, molti dei nostri lettori ti conoscono per la tua presenza nella “Cracking Art”. Tralasciando l’attività del gruppo che ormai è “un’istituzione” parliamo di te, chi è Marco Veronese e qual’è la filosofia del tuo lavoro?
Marco Veronese:Buongiorno Vincenzo, innanzitutto voglio ringraziarti per la domanda. Per parlare della filosofia del mio lavoro devo fare un passo indietro di qualche anno… Sono certo che tutti conosciate il “Giudizio universale” di Michelangelo e certamente avrete già visto uno dei primi esempi di pittura rupestre come quelli scoperti nella grotta di Altamira in Spagna oppure come quelli nella grotta di Lascaux in Francia. Sono convinto che il vero momento evolutivo sia proprio racchiuso in ciò che le raffigurazioni rappresentano, e cioè il primo passo verso la consapevolezza di sé e l’introspezione del genere umano.
Da quel momento il buio profondo che era dentro l’uomo viene sconfitto per sempre dalla luce della spiritualità che, come un filo invisibile, unisce quei nostri antenati a Platone, Galileo, Leonardo, Einstein, Picasso e tanti altri fino ai giorni nostri, e che non si è mai spezzato. Quei disegni sono il primo esempio d’arte, anche se coloro che li realizzarono non sapevano di essere degli artisti.
Usciamo dalle grotte di Altamira e di Lascaux e torniamo a Roma, in quel luogo sacro che è la Cappella Sistina. Qui è racchiusa una delle opere d’arte più impressionanti e straordinarie di tutto il panorama artistico di sempre: il “Giudizio universale”. L’affresco che per secoli è stato un vero e proprio manifesto della Chiesa, è sontuoso, magnifico ed in grado di impaurire chiunque lo osservi, carico com’è di simboli legati al peccato, al perdono, all’inferno ed al paradiso. Ma perché in mezzo alla fisicità dei personaggi dipinti, tutti carne, muscoli e vitalità, Michelangelo decide di raffigurare se stesso come una pelle svuotata dal suo contenuto se non per mettere se stesso in una posizione critica nei confronti della Chiesa e dei suoi insegnamenti? Egli è consapevole che la vera spiritualità non risiede tra le mura delle cattedrali, nella preghiera meccanica, nella sottomissione cieca a regole che in realtà conducono l’uomo ad una inconscia schiavitù, ma semmai è nella sfera personale che l’uomo può trovare Dio. Michelangelo quindi si allontana da tutto il fasto dei modellati corpi che gli stanno intorno (e che reputa più vuoti della sua pelle proprio perché non consapevoli) per diventare puro spirito e sottolineare la differenza tra l’artista e l’uomo, tra sé e il resto del mondo.
Soffermandoci invece sulla “Creazione di Adamo”, Michelangelo, rimarca, a mio parere, quanto appena descritto. Qui Dio e l’uomo sono uno di fronte all’altro con l’indice della mano proteso l’uno verso l’altro. Qui la genialità di Michelangelo supera ogni immaginazione, quella distanza di pochi centimetri tra le due dita congela quel gesto per l’eternità: Dio e l’uomo non si incontreranno mai! Ma è Dio a non volere toccare l’uomo o è l’uomo a non voler toccare Dio?
Tra Michelangelo e le pitture rupestri, non c’è nessuna differenza, infatti entrambe (anche se in maniera e con strumenti diversi) sono il frutto della necessità dell’uomo di raccontarsi e testimoniare il proprio tempo attraverso l’uso delle immagini il cui linguaggio non conosce frontiere. Lo stesso filo collega Michelangelo all’arte moderna e contemporanea, perché l’artista continua ad essere il luogo delle idee, la piazza dove si concentrano gli stimoli che la quotidianità suggerisce, il punto di partenza verso nuove mete.
Oggi viviamo un periodo di assoluta crisi, e non solo in termini economici ma, e soprattutto, in termini individuali e quindi sociali. Il progresso ha trasformato lo specchio in un monitor in cui non è la nostra immagine a riflettersi, ma la proiezione di un essere umano stereotipato e costruito sulle esigenze di un sistema che tende a distruggerne l’identità che è unica e irripetibile per ognuno di noi. Abbiamo bisogno di un nuovo Rinascimento, abbiamo bisogno di cambiare il nostro punto di vista filtrandolo con nuove “lenti e nuovi occhi”, ma soprattutto attraverso uno spirito nuovo o ritrovato. Proprio da questi concetti e dalla mia esigenza personale, ho iniziato la ricerca che mi ha portato a realizzare quadri e sculture, a progettare performances e video installazioni, fino a scrivere un libro. Il modo migliore per raccontarmi, e raccontare, era quello di usare una serie di simboli riconoscibili.
V.C.: Assolutamente si, abbiamo bisogno di cambiare il nostro punto di vista e ritrovare la nostra vera “essenza”. Ora volevo chiederti di parlarci di una tua opera, o serie di opere, a cui sei particolarmente legato.
M.V.:Poiché il mio cognome è Veronese, come quello del famoso pittore Rinascimentale, ho deciso di fare un tributo a quel periodo storico che ha dato inizio ad uno dei maggiori cambiamenti della storia. Nell’opera “Preludio”, ogni parte del quadro è simbolica, dall’uso del silicone, alle immagini, alla scomposizione tridimensionale della foto. La farfalla, oltre ad essere simbolo di bellezza e fragilità, è simbolo di cambiamento e metamorfosi, per molte culture antiche era il simbolo della spiritualità e, nell’arte Rinascimentale, era (con la libellula) il simbolo della resurrezione di Cristo. I ritratti femminili sono la memoria e la genesi, quindi nascita e rinascita in un continuo susseguirsi. Le donne sono le vere custodi del segreto della vita e dell’energia del mondo, per questo per millenni sono state represse dagli uomini e continuano ad esserlo in molti paesi. Il silicone usato a punti intorno ai soggetti dei quadri è la rappresentazione della forza vitale che tutto collega e senza la quale nulla può esistere. I pannelli di vari spessori che compongono i quadri sono la frattura, il movimento atto a scatenare i cambiamenti necessari, il terremoto che ridisegna ogni cosa.
V.C.: Nelle tue opere c’è un elemento molto ricorrente, il teschio…
M.V.:Per i più questo è il simbolo della morte, quindi della fine dell’esistenza, ma io lo uso spesso anche come simbolo della trasformazione e dell’uguaglianza. Nell’antica Roma, al rientro vittorioso dalle campagne di guerra, i generali accolti dalla folla entusiasta avevano sempre accanto a se uno schiavo che gli ripeteva la frase “Respice post te. Hominem te memento”, da cui è derivata la frase: “memento mori”, “ricordati che sei solo un uomo e sei destinato a morire anche se oggi tutti ti acclamano e sei ritenuto un eroe ed un grande condottiero”. Ed ecco che nelle mie opere il teschio assume il potere dello specchio che riflette la nostra semplice realtà umana con cui dobbiamo confrontarci. Non è un concetto pessimistico, ma rappresenta il coraggio di guardare senza paure o pregiudizi ciò che ci circonda, perché affrontare la realtà è il solo modo per cambiarla. Quando, attraverso il mio lavoro, riesco a fare riflettere una singola persona sui temi che tratto, quello è il mio goal, la mia missione. E proprio perché ognuno può essere artefice del proprio destino, ma anche dei cambiamenti intorno a sé, ho deciso di usare anche me stesso in alcuni dei miei quadri. Non è egocentrismo, ma consapevolezza e presa di responsabilità, perché sono convinto che se la voce ha un volto è molto più credibile!
V.C.: Puoi descrivere queste opere dove “sei presente”?
M.V.:Certamente, l’opera “Uomo N’Uovo”, dove il titolo racconta il quadro in un gioco di parole, a simbolo dell’arte ci sono io in posizione fetale all’interno di questo uovo o placenta che è il pianeta in attesa che il semplice battito di ali delle farfalle possa dischiudere il mio contenitore, facendomi nascere come un uomo nuovo e libero di esprimere tutta la forza del messaggio che l’arte può contenere. Le farfalle come vedete partono dal teschio che non è morte, ma semplicemente metamorfosi: solo dalle rovine si può ricostruire l’edificio crollato!
E mi sono rappresentato anche in questa, che ritengo una delle mie opere più importanti: “The bill”, 2×5 metri, è la ricostruzione in chiave contemporanea del cenacolo di Leonardo, dove i singoli personaggi sono stati cambiati con i simboli del potere. Qui Giuda, (che nel capolavoro di Leonardo tiene in mano un sacchetto con i 30 denari simbolo del tradimento) è sostituito da una sacchetto che contiene cocaina, a simboleggiare la nuova droga contemporanea: i media e i social media che apparentemente ci fanno sentire più liberi, ma che in realtà ci rendono sempre più schiavi. Al centro io appunto, non in veste di profeta, ma semplice testimone dell’umanità sacrificabile… noi tutti. I bicchieri neri rappresentano le menzogne del potere ed il calice con il vino rosso il sacrificio. Sullo sfondo un mondo i cui continenti monocromi rappresentano la possibilità di uguaglianza, perché le frontiere sono un’invenzione dell’uomo. “The bill” perché dopo la cena si deve pagare il conto, e saremo noi a pagarlo.
V.C.: Le tue opere hanno sempre un significato profondo, mai scontate o banali. Puoi raccontarci l’opera “Who will be the next”?
M.V.:Esistono tanti modi diversi di fare arte e di essere artisti, molti sono legati alla propria profonda intellettualità, altri alle proprie frustrazioni. Alcuni hanno invece deciso di aprire le porte del proprio studio per immergersi nella condizione umana con la speranza di cambiarla, ed io sono tra questi. Una giornalista mi ha definito “un artista guerriero”, ma anche alchimista che trasforma il piombo della violenza nell’oro della bellezza e della grazia.
La mia estetica nasconde e rivela allo stesso tempo il mio urlo contro un sistema schiavizzante, che ci fa dimenticare tutto troppo in fretta: siamo un’umanità con l’Alzheimer.
Questo è il messaggio dell’installazione “Who will be the next” presentata in occasione di Contemporary Istanbul del 2014 e allo spazio Factory del MACRO Museo di Roma. 10 coppie di piedi di bambini di 5 anni posizionati come in un obitorio. Ogni coppia ha un’etichetta di riconoscimento con una bandiera riferita a 9 paesi coinvolti in nuove guerre e rivoluzioni dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle di NY, ed il timbro “finally free”, perché solo la morte può renderli realmente liberi. Solo l’ultimo paio di piedi sull’etichetta non ha né bandiera né timbro, è in attesa che un’altra guerra mieta le sue vittime.
V.C.: Parliamo ora di due opere: “Heart of earth” e “Fuck the world”, l’opera di copertina.
M.V.:Quando si parla di uomo non si può prescindere dal luogo in cui vive. La Terra è un vero e proprio organismo vivente di cui spesso non consideriamo la fragilità. Un tempo il destino dell’uomo dipendeva da alcuni accadimenti naturali e per questo erano venerati come divinità. Oggi il destino della natura dipende da noi, è così che sono nate queste due opere. In “Heart of earth” la Terra prende il colore del sangue e diventa il cuore pulsante della vita rivelando al suo interno il simbolo dell’uomo nella sua accezione negativa, mentre nella scultura “Fuck the world” il destino del pianeta è in equilibrio sul dito medio di una mano scheletrica. Questo progetto risale al 2009, nel 2011 lo Tsunami che ha devastato il Giappone ha creato uno spostamento di quasi 17 cm dell’asse terrestre, nella mia scultura avevo spostato l’asse terrestre di qualche centimetro facendo diventare il nuovo asse il prolungamento del dito che sostiene il pianeta… A volte la preveggenza nell’arte offre ancora maggiori spunti di riflessione e ne fa capire la grande forza e l’importanza.
V.C.: Ho ancora una curiosità, potresti parlarci dell’opera “UniverSe”, opera dove il simbolismo è molto complesso…
M.V.:Alcuni di voi hanno mai sentito parlare della musica delle sfere celesti? É il suono non udibile provocato dal movimento dei pianeti, e gli artisti (la cui sensibilità li trasforma in “antenne” capaci di captarne a livello inconscio le vibrazioni) ne diventano i messaggeri. Due importanti astronomi hanno detto che noi siamo fatti della stessa materia delle stelle. William Blake scrisse che in un granello di sabbia si può vedere il mondo.
Io sono sempre più convinto che più ci allontaniamo dalla nostra madre, la Terra e dal nostro padre, l’ Universo, e più ci allontaniamo dalla nostra vera essenza. La postura verticale ci ha fatto scordare l’odore dell’erba e non ci permette di vedere le formiche, privilegi che hanno i bambini finché non cominciano a camminare, ma dovremmo sempre mantenere vive queste sensazioni per evitare di distruggere l’unico luogo in cui possiamo vivere. Alcuni anni fa, preso dallo sconforto di una crisi profonda in cui ero, prima di addormentarmi chiesi un segno. Il giorno dopo successe ció che non mi era mai successo prima, riaccendendo il computer l’immagine che avevo scelto per il mio desktop, una frase dedicatami da un Lama Tibetano, era sparita, lasciando posto ad un’immagine della galassia di Andromeda, era il segno che avevo chiesto. È nato così il progetto intitolato “UniverSe”, una serie di quadri sul cui sfondo ci sono immagini di galassie, e in primo piano silhouette semi-trasparenti, ancora simboli e alcuni dei miei testi. Qui il simbolismo è molto complesso: due figure tengono in mano rispettivamente un libro chiuso, (in questo caso un’antica Bibbia) e l’altra un libro aperto con l’immagine di San Giorgio che uccide un drago, oltre alla parte finale di un mio testo. Entrambe le mani indossano un anello, uno di pietra rossa=sacrificio, l’altra un teschio. La figura che sorregge la Bibbia chiusa rappresenta il potere potenzialmente schiavizzante delle religioni, mentre l’altra figura con il libro aperto rappresenta il libero pensiero, la capacità critica, il progresso evolutivo attraverso la conoscenza. Dal Medioevo, nell’iconografia della religione Cristiana, San Giorgio rappresenta il bene mentre il drago rappresenta il diavolo, il male. Nel mio lavoro San Giorgio è l’uomo che ha spezzato le sue catene e ha trovato la sua vera identità spirituale uccidendo il vero nemico: la superstizione e l’ignoranza.
V.C.: Vivi all’estero da tanti anni, prima in Turchia poi in Ungheria, ci puoi parlare della tua scelta?
M.V.:Anni fa fui invitato a fare una personale ad Istanbul, prima di allora non c’ero mai stato, fu amore a prima vista. Ogni volta che il mio sguardo si posava sul Bosforo, che io chiamo”vena d’acqua”, avevo lo stesso brivido sulla pelle e nell’anima, ero già stato lì ancora prima di arrivarci, così decisi di trasferirmi dall’Italia alla Turchia. Fu una decisione molto forte, avevo 50 anni, una bellissima ragazza che mi amava, una bella casa, la mia famiglia, i miei amici… Ma Istanbul mi chiamava, la mia anima mi chiamava. Non fu soltanto l’inizio del viaggio da un paese ad un altro, ma fu il più bello, eccitante e importante viaggio interiore che avessi mai fatto, e mi diede l’opportunità di fare i cambiamenti di cui avevo bisogno, sia come essere umano che come artista. A Istanbul sono nati moltissimi progetti, incluso un libro, nuove installazioni, una serie di tappeti nei quali i simboli tradizionali si mescolano a quelli contemporanei che io utilizzo nel mio lavoro, il progetto per un film in cui sono attore e coautore, e una serie di nuovi quadri. Non essendo un paesaggista, il mio lavoro non è legato all’architettura dei luoghi dove vivo, ma alle vibrazioni e all’energia che da questi luoghi ricevo. A Istanbul ho respirato una brezza profonda che non alimenta i polmoni, ma l’anima. E altrettanto succede ora nella questa straordinaria città in cui vivo dal 2017: Budapest.
V.C.: Marco, il tuo viaggio interiore è toccante. Prima di concludere l’intervista vorrei chiederti una cosa, che consiglio daresti ad un giovane artista?
M.V.:Bisogna saper sognare ad occhi aperti e non avere paura di niente e di nessuno, soltanto la determinazione, l’esercizio, la consapevolezza della bontà del proprio lavoro possono portarci ai risultati.
Bisogna abbattere i muri di pregiudizio degli altri e non erigerne di propri. Cercare dentro se stessi prima ancora che cercare nuovi materiali, il vero laboratorio è nella nostra anima, nel nostro cuore. Quando avremo scoperto il nostro messaggio interiore troveremo tutto ciò che ci servirà per renderlo visibile.
E mai dimenticarsi che l’opera è finita soltanto nel momento in cui incontra lo sguardo e le emozioni degli spettatori, e non quando esce dal nostro studio.
V.C.: Marco, ti ringrazio tantissimo per averci concesso il tuo tempo, è stato un vero piacere!